Non chiamiamola più crisi. Ha poco senso continuare ad evocare un fenomeno che sembra scomparire a breve. Quello che è successo sta mescolando le carte per un futuro diverso dell’economia padovana da come l’abbiamo intesa fino ad oggi.
Cominciamo a riflettere dai dati del sondaggio sulla congiuntura economica rilevati dalle aziende associate ad Apindustria Padova a ottobre 2009. Dalle ultime analisi si può confermare l’arresto della contrazione di ordini, ma in uno scenario di estrema scarsità si lavora “a vista”, con magazzini ridotti all’osso e condizioni svantaggiose per i fornitori affamati di lavoro per mantenere occupazione ed investimenti. In queste condizioni i margini sono sistematicamente erosi dalla mancanza di programmazione e gestione, amplificando le inefficienze. Gli associati prevedono mediamente una chiusura di bilanci di quest’anno con un -10%, valutando stabile l’ultimo trimestre.
Futuro? Ripresa? Spiacenti, pare di no. Rimane il pessimismo e per i prossimi mesi non si intravedono importanti inversioni di tendenza. Il rapporto sulla congiuntura della Camera Di Commercio di Padova sostanzialmente conferma la nostra analisi di un anno con ordini, fatturati, occupazione, vendite al dettaglio, export con segno meno, ricordandoci che si è interrotta una caduta dopo 20 mesi consecutivi di calo di produzione industriale. E ci informa che siamo ancora pessimisti sulle previsioni dei prossimi mesi, ma un po’ meno rispetto alla scorsa primavera.
Qualcosa è cambiato. Ma non chiamiamola più crisi, non illudiamoci. Qualora sia questo il nuovo assetto per il livello produttivo, non dimentichiamoci che abbiamo lasciato per strada quasi 20000 persone in un anno, pensare di riassorbirle in breve tempo è fantasia. E sarà il loro futuro la nostra preoccupazione maggiore e l’indice del nostro livello competitivo.
Parliamo di banche, e del fragile equilibrio dei loro rapporti con le imprese. Tra ABI e le associazioni datoriali, con Confapi in prima linea, c’è un rimpallo di accuse tra chi da una parte subisce improvvise chiusure di linee di credito e chi dall’altra risponde evidenziando disponibilità in aumento e cali di richieste. In mezzo c’è un protocollo, nato con lo scopo dichiarato di garantire la stabilità del sistema finanziario. Ma non è stato così, e ora Basilea2 comincia a manifestare alcuni effetti perversi per molte aziende. Con la ripresa degli ordini infatti serve credito, quello che è stato ritirato in questi mesi, ma che ora non viene più erogato. E quindi il sistema del rating diventa un alibi o un ostacolo insormontabile e rischia così di aggiungere la beffa al danno.
Il governo ha concentrato in questo ambito le energie per arrivare alla moratoria sul credito, chiesta a gran voce da più parti. La realtà evidenziata dai nostri associati sta dimostrando che questo strumento viene usato in minima parte, malgrado sia conosciuto da tutti. I motivi sono facili da intuire e pongono ulteriori dilemmi sul futuro equilibrio del rapporto banca-impresa. Rimane una diffusa sfiducia nel sistema bancario, in particolare con i maggiori istituti di credito. La domanda di moratoria include l’implicita ammissione di difficoltà economiche della propria azienda, con conseguenze indirette ma, come abbiamo visto, assolutamente determinanti.
A fronte di questa situazione, il tessuto economico della nostra provincia saprà essere ancora virtuoso perché non è condizionato da nessun distretto produttivo predominante, ma presenta molte specificità e molte eccellenze su diversi settori che potranno fare da traino su nuovi scenari soprattutto rivolti all’export. Le sofferenze maggiori hanno colpito il comparto della subfornitura meccanica, che sta cercando anche grazie ad Apindustria Padova e alla Camera di Commercio un nuovo sistema di organizzazione settoriale ed approccio al mercato. E’ triste notare che le istanze delle associazioni nei confronti delle istituzioni sono rimaste in secondo piano, in questo periodo che crisi ormai non è: pressione fiscale, inefficienza burocratica, lungaggini amministrative, e tutti quei costi che placcano le energie dei nostri uomini che ogni giorni in azienda dimostrano di credere nella centralità del lavoro come sviluppo sociale.
E l’Italia ci crede ancora?